Il poeta si diverte. Scherzi e sperimentazioni del giovane Aldo Palazzeschi

    Pubblicato nel dicembre 2010 dalla casa editrice fiorentina Phasar.

    La prima parte di questo saggio ripercorre le diverse fasi letterarie attraversate da Aldo Palazzeschi nei suoi anni giovanili: dal 1905, quando lo scrittore fiorentino, poco più che ventenne, stampa a proprie spese I cavalli bianchi, la sua prima raccolta di versi, fino ad arrivare al 1926, anno di pubblicazione per Vallecchi di La Piramide. Scherzo di cattivo genere e fuor di luogo, la cui prima stesura risale però al triennio 1912-1914. La seconda parte del lavoro è dedicata all’analisi del romanzo/antiromanzo Il Codice di Perelà (1911), opera tra le più singolari della letteratura italiana novecentesca, in cui risulta più organicamente evidente l’originalità palazzeschiana. Vengono affrontati dapprima i luoghi del romanzo, si passa quindi al sistema dei personaggi e infine ci si concentra sulla struttura dell’opera – la quale si presenta sotto forma di partitura ternaria –, coinvolgendo il lettore in un processo di nascita e di sviluppo di un testo narrativo, svelandolo ai suoi occhi sotto forma di azione che si fa narrazione.

   

Giovanili Carmi

    Nel 2004 pubblica la raccolta di poesie Giovanili Carmi per la Firenze Libri, casa editrice appartenente al gruppo editoriale Maremmi, fondato nel 1958 da Giorgio Maremmi.

    Trattando la contemporaneità con il linguaggio del passato, le sue poesie si prefiggono lo scopo di offrire al lettore, attraverso un continuo gioco di richiami e citazioni da una parte e invenzioni dall’altra, un continuo alternarsi di tradizione e innovazione, un continuo sbocciare di versi stranianti nell’altrimenti povero terreno del già visto e già sentito, il piacere intellettuale di guardare il mondo con occhiali nuovi, di cambiare le lenti anche solo per qualche minuto, “e vedere poi l’effetto che fa”. Non  perché il già visto e già sentito sia povero di per sé, ma perché diventa tale se ci si limita alla semplice imitazione, al copia e incolla, al tentativo di ridare vita a un passato morto, esercizio da artigiano e non da artista.

    La letteratura del passato è da studiare nella sua pienezza, nel suo vigore, nella sua forza. E quindi nella sua vita, nella sua reale esistenza, non in apocrifi epigoni kitsch che danno a un mondo vivo opere morte da tempo, opere che non sono più in grado di rappresentarlo, e quindi di modificarlo a propria immagine, di rigenerarlo. L’opera d’arte è tale solo quando vive nell’oggi o nel domani, e quando riesce a fare veramente questo, vale a dire nascere ed esistere nel proprio tempo o nel futuro prossimo venturo, vivrà per sempre, e per sempre verrà studiata, assumendo in ogni secolo e in ogni letteratura nuove forme e nuovi colori (come ci ricorda anche Pablo Picasso: “Se un’opera d’arte non vive nel presente, non vive”). In questo senso parliamo giustamente dell’eterna contemporaneità dei classici, e giustamente dobbiamo studiare i classici per essere contemporanei.

    Nella prefazione al libro, Caterina Bigazzi spiega così la poetica dell’autore:

Loci e stereotipi vengono messi in discussione da Marco Speroni, che se ne riappropria in modo personale e divertito, sì, ma anche con la dolceamara consapevolezza di una distanza incolmabile e proprio per questo, significativa, parlante.  […]
Maschere forse ora cinicamente derise, perché negli anni degli studi troppo amate, oppure cariche di ricordi e atmosfere, e quindi ben più potenti chimere da demistificare?  […]
Il vero obiettivo critico di Speroni, infatti, ci sembra essere non tanto il recupero parodistico di temi e stilemi, quanto la riflessione sul significato stesso dell’atto poetico. […]
Perciò, all’uso programmatico di uno stile tra il settecentesco e l’ottocentesco (non senza qualche incursione nel petrarchismo…), al discorso aulico e decadente, ora finto-mistico ora finto-realistico, a un ritmo volutamente impacciato e sorprendente, alla scelta, talvolta, dell’endecasillabo e della rima, nonché di forme verbali tronche, vocaboli come “oblio” e alcune figure retoriche da manuale, corrisponde un bisogno più autentico e stringente, quello di raggiungere il lettore con un significato e non solo catturarlo con un significante. Un bisogno di realtà e di voce che del resto è sempre stato proprio della migliore poesia – o forse di una sorta di “anima” – lombarda.

 

Facce sgomente

    Nel 2008 pubblica Facce sgomente, il suo primo romanzo (Edizioni Il Filo).

    Narrato in prima persona, il libro presenta l’assurda vicenda di un giovane studente universitario, il quale, scontratosi involontariamente con la morte violenta di un suo caro amico, ne subisce le conseguenze e, senza nemmeno rendersene conto, si ritrova in carcere accusato di omicidio. Tornato in libertà, decide di condurre per conto proprio le indagini del caso e riesce a scoprire cose che gli investigatori non immaginano neppure, venendo in questo modo sempre più risucchiato dal vortice degli eventi inaspettati che si trova di fronte e che invece di respingerlo lo attirano con forza verso il fondo del baratro.

    Partendo dalla falsariga dell’hard-boiled americano, il romanzo si allontana poi dalle rotaie del genere per proseguire in tutt’altra direzione: l’azione trascinerà via con sé il protagonista, il quale dovrà lottare e crescere suo malgrado, e suo malgrado verrà a contatto con la vita vera e quindi con la morte, con il dolore che modificherà la sua struttura, la sua formazione.

    La prosa di Marco Speroni nasce da quell’anima lombarda chiamata in causa da Caterina Bigazzi, e all’anima lombarda tende: quell’anima in grado di unire l’ironia alla letteratura con maggiore o minore intensità, come la situazione richiede di volta in volta, in grado di dare forma tragica al banale quotidiano e toni da commedia all’apocalisse esistenziale. Quell’anima che nella sua estensione ed eterogeneità nelle forme e nei colori non ha mai dato vita a un genere, ma ha generato geni e capolavori con impressionante continuità nell’arco dei secoli. Quell’anima che ama giocare con il tempo e con i tempi, insieme sincronica e diacronica, che ama viaggiare nella scrittura più che nello spazio della dimensione sensibile, che ama sorridere con cinico distacco delle disgrazie altrui ed esasperare all’ennesima potenza il proprio male di vivere, rivelare al mondo il dolore interno senza aspettarsi dal mondo nulla, se non qualche lacrima di solidarietà e qualche minuto di raccoglimento sotto forma di lettura silenziosa e solitaria, per poi tornare nuovamente a rubare e ad ammazzare. Quell’anima lombarda che, se da un lato non è mai riuscita a raggiungere le vette più alte della poesia (i capolavori ci sono, naturalmente: uno su tutti L’è el dì di mort, alegher! di Delio Tessa, pubblicato nel 1932 nonostante l’ostilità del regime fascista nei confronti dei dialetti; ma non si può dire certo che Delio Tessa sia più grande e più importante di D’Annunzio, o di Montale, o di Ungaretti, o di Palazzeschi; e per l’Ottocento non si può dire certo che Carlo Porta o che il Manzoni poeta siano superiori a Leopardi o a Foscolo; e così via, giù giù fino a Bonvesin de la Riva ci sarà sempre un poeta con anima non lombarda superiore al coevo animato invece da spirito lombardo), dall’altro ha generato i due più grandi e più importanti prosatori italiani dell’Ottocento e del Novecento: Alessandro Manzoni e Carlo Emilio Gadda.

    Se l’anima toscana ha dato il meglio di sé in poesia, da Dante e Petrarca a Palazzeschi e Luzi, per ricordare soltanto i maggiori delle origini e della contemporaneità, l’anima lombarda ha certamente il suo punto di forza nella prosa, che permette di allontanarsi dal centro con maggiore facilità e di muoversi più liberamente, consente di fermarsi e di ripartire quando si vuole senza per questo essere sommersi e trascinati via dall’irruenza dei versi che come onde vincolano con la loro periodicità. A veder bene, è proprio la digressione (e l’anacronismo in genere) il filo rosso che accomuna le opere degli scrittori con quest’anima (qui non si sta parlando, è bene ricordarlo, degli scrittori nati in Lombardia, ma degli scrittori che possiedono lo spirito lombardo, e quindi la sua vocazione artistica, la sua specificità letteraria): basti pensare ai Promessi Sposi e alle lunghe parentesi storico-biografiche su padre Cristoforo, sulla monaca di Monza, sul cardinale Federigo Borromeo, sulla discesa dei Lanzichenecchi in Italia, eccetera, o ai romanzi e ai racconti di Gadda, i quali centrifughi si perdono nell’universo leibniziano dei mondi possibili, o ancora alla divagazione infinita di Alberto Arbasino, ultimo degno rappresentante di quest’anima che tanto ha dato alla letteratura.

    Se ci è consentito muoverci tra le varie espressioni artistiche e giocare con i generi, saltellando liberamente a destra e a manca, toccando con le stesse scarpe terreni differenti, è facile notare come questo fenomeno sia presente in molti campi della comunicazione, sia immediata che mediata. Per limitarsi alla seconda metà del Novecento e non allontanarsi più di tanto – ma si potrebbe senza alcuna difficoltà – basti pensare al cinema di Luigi Comencini e di Dino Risi, al teatro di Giorgio Strehler (che di non lombardo ha solo il luogo di nascita sulla carta d’identità) e di Dario Fo (due modi di fare teatro senza alcun dubbio molto distanti tra di loro, per tornare al discorso dell’eterogeneità), al teatro-canzone di Giorgio Gaber, alle canzoni-cabaret dello stesso Gaber e di Enzo Jannacci (Vengo anch’io. No tu no, tra l’altro, ha come autore anche Fo), al cabaret assurdo-surrealista di Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto.

    Ebbene, è certamente da quest’anima che prende vita la scrittura di Marco Speroni, e solo il tempo ci dirà se a quest’anima è degna di essere ricondotta.

    Esasperare la tragedia fino a trasformarla in farsa o drammatizzare la leggerezza della caricatura vedendo in essa una deformazione congenita può infastidire, certamente, ma altrettanto certamente aiuta a guardare meglio il mondo, a capirlo meglio soprattutto, perché è nel sublime che risiede la sua essenza, vale a dire nella commistione sincronica del bene e del male, del comico e del tragico, dell’immanente e del trascendente. Sublime come il matto di Amarcord, che sopra un albero urla forte il suo grido di disperazione esistenziale: “Voglio una donna!”, o come la protagonista di Melinda e Melinda di Woody Allen, la quale ci ricorda che le lacrime di gioia e quelle di dolore nascono dalle stesse ghiandole e bagnano le stesse guance.

    Al pari dei temi scolastici che ci costringono a spiegare con pagine e pagine di fogli protocollo una frase pronunciata o scritta da un genio, che essendo un genio ha racchiuso nella brevità di un aforisma il senso della vita, ci si sente sconfitti in partenza nel tentativo di eguagliare il genio, di superarlo persino. Per questo motivo non si è trovato di meglio che raccontare l’anima lombarda rubando le parole a un grande scrittore francese (e dalla Francia, del resto, la cultura e il dialetto milanesi hanno preso molto):

    Per me il grottesco triste ha un fascino inaudito. Corrisponde ai bisogni intimi della mia natura buffonescamente amara.

                                                                Gustave Flaubert

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